Rosellina Garbo,”la costante delle mie foto sono io, il mio mondo interiore, che naturalmente e fortunatamente si è arricchito della vita che ho vissuto”.

Prima raffinata ballerina e poi acuta fotografa, Rosellina Garbo ha fatto del raccontare la sua professione e missione. Persona di rara sensibilità e molteplici interessi, è ormai figura di riferimento fra i fotografi di scena italiani. Collabora, fra gli altri, con l’Unesco, il Conservatorio “V. Bellini” di Palermo e dal 2013 è fotografa ufficiale del Teatro Massimo di Palermo.

Rosellina Garbo

Incredibile il suo percorso: prima ballerina poi fotografa di scena.

Sì, sono stata molto fortunata, ho avuto il privilegio di vivere la scena come interprete, e questo innegabilmente mi ha dato la conoscenza della sacralità di quel luogo, così come il rispetto delle sue regole. Non ho scelto di lasciare la danza, è accaduto perché la vita spesso ha disegni diversi da quelli che speriamo; quella che sembrava la fine della mia identità artistica, non è stata altro che un cambio di prospettiva, un’amplificazione di quello che mi aveva attraversato. Adesso so che smettere di danzare mi ha costretta a scavare ancora per rinascere altrove. La fotografia ha ricucito lo strappo e tutto quello che sono stata, adesso, entra in gioco con una inaspettata intensità.

Il suo rapporto con la macchina fotografica e con i grandi fotografi del passato. Ha un mentore ideologico? Chi l’ha ispirata e chi è, se c’è, uno dei suoi maestri spirituali?

La fotografia è una passione lontana, scoperta a quattordici anni quando sono entrata per la prima volta in una camera oscura. Studiavo già danza e così è rimasta a margine, anche se maturavo il desiderio di raccontare il mondo che vivevo. Erano anni in cui trovare libri sulla danza non era così facile. Impensabile la facilità con cui adesso abbiamo accesso alla conoscenza. Il mio amore per la “scuola inglese” e gli straordinari interpreti del Royal Ballet mi ha portato ad un incontro con uno dei più grandi fotografi di scena dei nostri tempi, Anthony Crickmay. Ho passato ore infinite sulle sue foto perché quello che scaturiva dal suo lavoro era molto di più della precisione di un salto o del tecnicismo di un passo. Seguire il suo lavoro era come immergersi nell’emozione che aveva vissuto stando dietro la sua macchina fotografica. Sì, era proprio l’emozione il timbro più significativo della sua arte. Solo in seguito ho capito quanto mi aveva segnata in entrambi i percorsi che ho attraversato, la danza e la fotografia.

Anthony Crickmay per Candoco Dance Company

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Quali sono i caratteri distintivi della fotografia di scena, secondo Rosellina Garbo?

Per pregiudizio, o per mancanza di conoscenza, ancora oggi la fotografia di scena ė considerata come una sorella minore. Molto spesso, quando mi ritrovo tra colleghi fotografi, faccio fatica a dare dignità alla mia scelta. Le argomentazioni che cercano di screditare questo lavoro sono le più disparate. Spesso mi sento dire che si tratta di una fotografia didascalica, tutt’altro che creativa perché il fotografo non sceglie nulla, né la scena, né le luci, né l’ambientazione. Non è così per me. Ogni nuova produzione ė una storia nuova, non ci sono schemi prestabiliti, bisogna mettersi in ascolto, entrare in sintonia con le scelte di chi conduce il gioco e farlo proprio, affinché ognuno dei protagonisti riceva la giusta considerazione e rispetto. Non mi riferisco solo ai cantanti, agli attori, o ai ballerini: gli interpreti di una “messa in scena” sono tantissimi, registi, direttore d’orchestra, coreografi, scenografi, costumisti, light designers… Come fotografa di scena, sento la grande responsabilità di non tradire il senso della narrazione di ciascun artista, anche quando le scelte sono in antitesi alle mie necessità. Mi capita frequentemente di fotografare in condizioni di luce impossibile, ma non potrei mai non farmi carico di una scelta stilistica ben precisa. La vera sfida ė abbandonare la tentazione del mio narcisismo, o la ricerca del compiacimento dello scatto spettacolare che dia la misura della mia capacità tecnica, e saper diventare narratore dell’insieme. Sembrerebbe riduttivo, una gabbia, e invece è la straordinaria opportunità di essere la somma delle tante forze che generano lo spettacolo. Del resto ogni interprete sulla scena abbandona se stesso per trasformarsi nel tessuto emotivo del personaggio a cui dà vita. Anche lui è “ponte” a servizio della narrazione, pur trovando la libertà e la coerenza del proprio sentire. Fotografare la scena è come moltiplicare il proprio stato percettivo, stabilire una connessione fortissima con se stessi e galleggiare in un flusso d’energia ricchissimo, incontro delle molteplicità.

Esiste una scissione fra Rosellina Garbo fotografa e Rosellina Garbo donna?

Non credo, ma penso che sia più facile per un occhio esterno stabilire quanta coerenza ci sia tra me e quello che fluisce nel mio sguardo. Personalmente, penso che ognuno di noi metta in gioco se stesso qualsiasi cosa faccia. Sono Rosellina donna quando cerco di rassicurare l’altro alla mia presenza sulla scena, e devo essere necessariamente io in ogni mio gesto o parola, perché l’altro possa fidarsi, lasciarmi entrare nel suo mondo.

Rosellina Garbo, Emma Dante regista in Strauss, “Feuersnot” – Teatro Massimo di Palermo, 2014

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Ci descriva in breve il suo personale processo fotografico. Con quale criterio si fotografa un’opera lirica? Ed un recital di canto? E una esibizione di danza?

Opera e danza sono di sicuro le opportunità che preferisco, perché il mio lavoro inizia contemporaneamente alla nascita della costruzione dell’opera. Ė il momento dell’incontro tra il regista e i cantanti, o del coreografo con i danzatori. Non sono in gioco solo partitura e movimenti scenici, questa prima fase ė il tempo delle relazioni tra gli interpreti, il momento prezioso per scoprire le personalità che entrano in gioco. Il mio sguardo accompagna le infinite ore di prova che precedono lo spettacolo e non potrei mai dire come andrà, quanto tempo occorrerà per raccogliere del materiale significativo. Sto in ascolto sino a quando non sento di avere in me qualcosa di veramente significativo dell’opera e dei suoi interpreti.

Dal suo punto di vista, che cosa accomuna musica e fotografia?

La musica ha il potere catartico di fare risuonare la forza delle emozioni per cui il palcoscenico diventa il “teatro della vita” che si snoda in un lasso di tempo brevissimo consentendomi un viaggio straordinario per la narrazione. La partitura è l’onda che accomuna tutti, orchestra ed interpreti. Starvi dentro, seguirne il ritmo, a volte anticiparlo, significa poter cogliere l’attimo d’abbandono dell’attore, del danzatore, il momento impercettibile del suo respiro oltre il personaggio. La musica è anche la danza delle note che prende forma tanto nel gesto del direttore d’orchestra quanto in quello dei musicisti. Se lo spazio d’azione del musicista è circoscritta allo strumento, non è così per il direttore d’orchestra. Il suo gesto deve riempire lo spazio, vibrare sino ad avvolgere tutti. Ognuno conduce in un modo irripetibile, e la fisicità che svela sembra una “danza” che racconta di sé. Adoro fotografare i direttori d’orchestra, stare dietro le quinte e studiare il loro gesto è un viaggio nell’ intimità del personaggio e del suo dialogo con l’orchestra.

Rosellina Grabo, Hans Werner Henze “Gisela”, regia di Emma Dante – Teatro Massimo di Palermo 2015

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Può raccontare come si muove nella fase di ricerca e poi di realizzazione di un lavoro fotografico?

Il mio interesse ė mosso dalla voglia di raccontare la macchina scenica nel suo complesso. Cerco il racconto che sta dietro il racconto, l’attore che sta dietro al personaggio, la luce che sta dietro il sipario. Lì si compie la vera magia. Nella fase creativa, nei limiti delle esigenze del regista, sto sul palcoscenico, ed è un viaggio che si svela via via che si procede. Quasi mai mi vengono posti limiti, ma per poter osservare con maggiore libertà cerco di rendermi invisibile, di non pesare sulla scena. Questo favorisce il fatto che la mia presenza sia accolta da tutti senza alcuna tensione.

Ci sono delle costanti nel suo linguaggio che ritrova anche riguardando le fotografie fatte in passato?

Sarei in grado di riconoscere una mia foto senza esitazione alcuna anche se si trattasse di uno scatto di molti anni fa. Rivedendole sento come un click interiore e riaffiora quello che ho provato in quel particolare momento. Tutto rimane impresso nello scatto, la ricerca e l’attesa che tutto stia in linea con la propria visione, col proprio desiderio di rendere visibile la propria scelta. La costante delle mie foto sono io, il mio mondo interiore, che naturalmente e fortunatamente si è arricchito della vita che ho vissuto.

Rossellina Garbo, Svetlana Zakharova in “Carmen Suite”, coreografia di Alberto Alonso – Teatro Massimo di Palermo 2019

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Rosellina Garbo, Sechs Tanze “La grande danza”, coreografia di Jiri Kylian, Corpo di Ballo del Teatro Massimo di Palermo 2018

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Ci sono dei registi, degli scenografi o coreografi, dei direttori d’orchestra che hanno influenzato particolarmente il suo cammino?

Non si può maturare consapevolezza del proprio valore se non attraverso la risposta che ci danno gli altri e di sicuro il mio lavoro è stato segnato dalla generosità di tante persone che hanno voluto e saputo comunicarmi l’emozione suscitata dalle mie foto. Si ha sempre bisogno di uno specchio per comprendere la verità tra quello che sentiamo interiormente e quello che arriva agli altri. Esattamente come nella danza dove non puoi affidarti a quello che senti ma devi confrontarti con quel giudice inflessibile, lo specchio, che riflette la tua immagine e quella che arriverà agli altri, oltre i tuoi desideri e aspettative.

Rosellina Garbo, Trittico Contemporaneo “Waliking Mad”, coreografia di Matteo Levaggi – Corpo di Ballo del Teatro Massimo di Palermo 2017

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Lei ha preso attivamente parte alla recente campagna “Io lavoro con la fotografia”, di sensibilizzazione in favore del Diritto d’Autore…

La materia è tanto ampia quanto delicata. Le leggi a garanzia del diritto d’autore esistono, ma sono pressoché sconosciute e meno che mai applicate. Al momento è in atto un riordino delle regole che fa temere un’ulteriore confusione e depotenziamento della professione del fotografo. Forse complice la larghissima diffusione di telefonini trasformati in evolutissimi strumenti tecnologicamente perfetti con i quali chiunque può fermare immagini significative, si vorrebbe procedere ad una differenziazione tra “foto semplici” e “ foto creative”. Sarà istituita una commissione giudicatrice, ma chi ha facoltà di giudicare cosa ė semplice e cosa creativo?Ė come se nella musica si decidesse di garantire il diritto d’autore solo alle grandi opere banalizzando il ruolo creativo di chi compone la musica che ci accompagna tra uno spot pubblicitario e il tormentone estivo. Al di là del nostro gusto musicale c’è un autore da rispettare e a cui riconoscere i diritti d’autore. Nessuno potrebbe rubare la musica altrui. Questo semplicissimo concetto, assodato nel campo musicale, sembra sia difficilissimo da associare alla fotografia, del resto ė sotto gli occhi di tutti il continuo furto di immagini che si perpetua quotidianamente sul web. Per di più, la proposta di modifica della legge, nel differenziare le due categorie, fissa in 70 anni i diritti da riconoscere alle opere creative e un rilievo giuridico penale in caso di furto, mentre solo 20 anni alle “fotografie semplici” senza alcuna possibilità di rivalsa legale nel caso di furto. Direi che viene meno ogni rispetto per un lavoro che come qualsiasi professione merita considerazione e riconoscimento.

Rosellina Garbo, “La mano felice – Il castello di Barbablù”, regia di Ricci-Forte –
Teatro Massimo di Palermo 2018

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Il suo legame con la Fondazione Teatro Massimo di Palermo inizia nel 2013: che cosa rappresenta per lei lavorare per uno dei più importanti teatri lirici dell’Italia meridionale?

Il mio amore per il Teatro Massimo è iniziato quando ero bambina. Volevo entrare nella scuola di danza interna al teatro ma ero così piccola che non fui scelta. Lì ho fatto la mia prima audizione come professionista e ho avuto il mio primo contratto di lavoro. Essere la fotografa che accompagna col proprio sguardo ogni produzione, è la cosa più straordinaria che potesse accadermi, un privilegio indescrivibile. La mia immensa gratitudine va al Sovrintendente, dottor Francesco Giambrone, che ha avuto un ruolo fondamentale. Le nostre vite si sono intrecciate quando ero ancora una giovane ballerina e lui un critico di musica e danza. É stato tra i primi a credere in me e seguirmi nel traghettamento dalla danza alla fotografia.

Rosellina Garbo, Carmela Remigio in Bellini “Norma”, regia di Di Gangi – Giacomazzi – Teatro Massimo di Palermo 2017

Rosellina Garbo, Mariella Devia in Bellini “Norma”, regia di Di Gangi – Giacomazzi – Teatro Massimo di Palermo 2017

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In un mondo di artisti come quello del teatro, lo sguardo del fotografo viene esaminato da altri creatori come i registi, i direttori di scena, gli scenografi, i costumisti di una produzione. Come si rapporta con loro?

Voglio raccontare un episodio che rimarrà nella mia memoria con forza. Si trattava di una coproduzione con un altro teatro e quindi un’opera già andata in scena. Il rapporto tra regista e interpreti era già consolidato e c’era già del materiale fotografico; di fatto la mia presenza era importante più per l’archivio del teatro che per la produzione. Nonostante tutto la mia caparbietà nel voler tracciare un mio taglio preciso non è venuta meno. Io e la regista non siamo quasi mai entrate in contatto; mi sono tenuta a distanza per evitare di essere ingombrante, e ho continuato a lavorare pressoché nell’ombra. Le foto, come di consueto, devono essere approvate prima di essere consegnate alla stampa. Con mia grande sorpresa la regista ha scelto un considerevole numero di foto. Il giorno della Prima, quando si è chiuso il sipario, nonostante la concitazione che esplode sempre dietro le quinte, lei mi ha fermata e parlato davanti a tutti con una inaspettata intensità. Si complimentava e allo stesso tempo non faceva altro che chiedermi scusa per non aver capito prima chi fossi, come fossi. Continuava a pronunciare parole bellissime per esprimere la sua gratitudine. Una frase non potrò mai dimenticare “lei ha nobilitato il mio lavoro”. Nulla può farti capire meglio quanto profondo possa essere stato il tuo sguardo e il valore del tuo lavoro. Questa è la dimostrazione che la fotografia ha un’anima e per quanto si possa fotografare in tanti lo stesso spettacolo, ognuno racconterà il proprio viaggio interiore, e le foto non saranno mai le stesse.

C’è un posto privilegiato all’interno del Teatro Massimo da dove scattare?

Non ho un metodo, ogni volta cerco di immaginare cosa può essere più efficace per raccontare la scena. Ovviamente ė diverso se si tratta di danza, di un’opera o un concerto. Devo adattarmi alle circostanze e immaginare cosa mi darà più emozione, perché ė quello l’elemento indispensabile per raccontare. La situazione meno creativa ė di sicuro un concerto ad eccezione dei solisti che sono sulla linea prossima alla visuale. Nella danza, per quanto sulla scena tutto si muova in una visione frontale, esistono delle linee di forza che servono ad attirare l’attenzione di chi guarda, e tendono a focalizzare le azioni che si vuole enfatizzare. Intuirle permette di entrare in un dialogo più intimo con l’azione. Non ci sono dei codici prestabiliti, bisogna scoprire e comprendere il tessuto narrativo di chi crea la scena. Nel recitativo di un’opera invece, non posso ignorare il dialogo che i cantanti devono costantemente avere col direttore d’orchestra. Mi piace essere su quella traiettoria e aspettare il tempo della sospensione del respiro in cui gli artisti possono finalmente abbandonarsi alla naturalezza della propria espressione pur trattenendo l’intensità e l’emozione del personaggio. Sono millesimi di secondo, ma ė quello il momento che aspetto.

Rosellina Garbo, “My Fair Lady”, regia di Paul Curran – Teatro Massimo di Palermo 2019

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Una fotografia alla quale è particolarmente legata

Le fotografie a cui sono legata visceralmente risalgono al mio viaggio in Cina. Sono stata invitata lì per fotografare la città di Hangzhou che si apprestava a promuovere la sua identità culturale all’EXPO 2015 di Milano. Sapevano che ero una fotografa di scena e a sorpresa mi hanno invitata allo spettacolo del Kunku Opera, consentendomi di andare dietro le quinte dove gli attori stavano preparandosi. Nessuna analogia col nostro mondo, stavo per assistere ad una delle forme teatrali più antiche, patrimonio immateriale dell’Unesco. Una storia millenaria che perpetua la sua forza in una logica in cui sembra che il tempo perda ogni riferimento, in cui i protagonisti devono abbandonare la loro identità fisica per nascere, totalmente stravolti, nel personaggio a cui dare vita. 60 centimetri tra me e la loro immagine riflessa negli specchi, in uno spazio temporale sospeso in cui, io e loro, sembravamo galleggiare in soluzione di continuità, come se mi avessero avvolta nella sacralità dei loro gesti. Uno dei momenti più intensi che abbia mai vissuto attraverso la macchina fotografica. Di sicuro le foto che amo di più.

Rosellina Garbo, Kun Qu Opera, 2015

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Cosa consiglierebbe ad un giovane fotografo che vuole intraprendere la strada della fotografia di scena?

Nel 2016 il Teatro Massimo, in collaborazione con il Teatro alla Scala, ha dato vita ad un Corso per fotografo di scena nell’ ambito del progetto “Legalitars” e ho avuto modo di seguire i 15 ragazzi selezionati. Insegnare, trasferire la propria esperienza a qualcun altro non è soltanto un atto di generosità, ė una ricchezza reciproca, uno scambio, soprattutto quando si ha davanti qualcuno realmente desideroso di entrare nel mondo che ti appresti a svelare. Ne ho un ricordo bellissimo e spero, al di là degli aspetti tecnici, di essere riuscita a trasmettere loro il senso del rispetto per la sacralità di un luogo. Il palcoscenico si deve varcare con pudore, rispetto e soprattutto amore. Ė il luogo dell’arte, di tutte le arti, ė come un ventre dove riecheggiano tutte le storie che sono “andate in scena” e che vibra di tutte le vite che ha vissuto.

Rosellina Garbo, Rossini “Guillaume Tell”, regia di Damiano Michieletto – Teatro Massimo di Palermo 2018

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